Il mistero del calzino spaiato

C’è una questione grave che non riesco mai a risolvere, è il mistero del calzino scomparso.
Per quanto mi impegni, e giuro lo faccio veramente, spesso e volentieri mi ritrovo con i calzini spaiati.
Non ho ancora scoperto come questo succeda, se scompaia in lavatrice, si nasconde nel cassetto oppure se lo mangia la tartaruga. Il fatto è che il conto non torna mai.
Il calzino fuggitivo a volte ritorna, quando ormai avevo perso le speranze e subito ne sparisce un altro. Forse giocano tutti quanti a nascondino e ovviamente a qualcuno tocca cuccare. E’ un problema diffuso, ed è uno dei misteri più misteriosamente misteriosi che inquietano il genere umano.
Ceste di calzini spaiati che, dico io, dicono tutti, pure se fossero andati a finire sotto il letto, dietro i mobili, in un altro bucato, dentro a una scarpa, prima o poi uscirebbero fuori e si riappaierebbero, e invece no: il secondo calzino scompare inghiottito da qualche entità astrale, scompare nel buco dell’ozono....e tentare di interrogare i miei animali domestici ?…magari ne sanno più di quanto possa immaginare.
Qualcuno dice che, lavati in bucati diversi, magari si tingono e uno non li riconosce più come coppia: niente di più falso. I calzini spaiati hanno fogge completamente diversi, e non credo che il bucato cambi loro anche la trama del tessuto, il modello e il disegno.
L’unica soluzione che ho trovato sarebbe quella di comprare tutti i calzini uguali, ma tutti tutti. Così non sarebbero più spaiati, solo ogni tanto qualcuno rimarrebbe da solo, per un po’ di tempo, ma almeno la mattina non impazzirei a vestirmi...

...ma il mistero non sarebbe comunque risolto.

venerdì 30 ottobre 2009

Il calzino


Il primo armadio che si apriva quando volevo, era il comò. Dovevo solo tirare il pomello e dalla serratura l’anta scattava verso di me. Fra tutte le camicie, grembiulini, magliette che vi erano custodite c’era una cosa che trasformava il comò in un’avventura. Dovevo farmi strada fin nell’angolo più riposto; allora incontravo i miei calzini, che se ne stavano l’uno accanto all’altro, arrotolati e rincalzati come si usava un tempo. Ogni paio aveva le sembianze di una piccola borsa. Nessun piacere era più grande dell’immergere la mano quanto più a fondo possibile nel suo interno. Non lo facevo per il tepore. Ad attirarmi verso il fondo era “il regalo” che avevo sempre in mano in quell’interno arrotolato. Quando lo tenevo ben saldo in pugno ed ero certo del possesso della tenera massa lanosa, aveva inizio la seconda fase del gioco che portava alla rivelazione. Ora infatti mi accingevo a estrarre “il regalo” dalla sua borsa lanosa. Lo tiravo sempre più verso di me, sino a quando lo sconcerto era al colmo: avevo estratto “il regalo”, ma “la borsa” in cui era stato custodito non c’era più. Ripetevo di continuo la dimostrazione di questo avvenimento. Mi insegnò che forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa. Mi educò a estrarre la verità dalla poesia con la stessa cautela con cui la mano infantile estraeva il calzino dalla “borsa”.



Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, traduzione di Enrico Ganni
Ripiego ancora i calzini così, “come si usava un tempo”. Uso questo brano quando mi chiedono un pezzo da recitare , e ho pensato di includerlo nella cose che volevo scrivere oggi; e poi mi sono chiesto se questo ha a che fare con il concetto di compattezza, se c’è la paura – in me – che estraendo il cuore della questione, nel volerlo “vedere”, no no no, aspetta, diciamo le cose come stanno: se nel mettere a nudo il mio cuore io possa perdere la forma.
Di recente ho considerato che la strada che stavo percorrendo mi indeboliva, e l’ho cambiata. Il fatto è che il cuore e la strada, il mio cuore e la strada, sembrano essere tutt’uno come quel calzino, anzi quel paio di calzini. E’ come se la strada la potessi trovare solo nel cuore. Ma non in quei modi sdolcinati alla Tamaro, please! Non è quello che voglio dire, e probabilmente neanche quello che vuol dire Castaneda, o chi lo cita.
Sto pensando sì; solo in pochi estatici momenti riesco a smettere di pensare, e non durano più di un secondo. Ma immagino che un giorno le partiture più complesse saranno affrontabili e l’assenza di pensiero concederà all’essere più respiro. Anelo le pause nella musica, per l’attesa del suono di cui si riempiono, e per la pace di quell’attesa che si sa sempre soddisfatta

1 commento:

  1. Variazioni su tema di …
    … parole scritte in un tempo che non è ora
    e da una mano di cui non potrei disegnare la sagoma,
    ma solo il calore.

    "E’ come se la strada la potessi trovare solo nel cuore".
    Ché quando la strada stona con lo spartito del cuore non manca cinciallegra ad avvertirti che qualcosa s’ha da mutare.
    E sordo è chi non vuol sentire poiché del coraggio di cambiare è povero.

    "Ma immagino che un giorno" …
    - Non v’è problema per cui non vi sia soluzione -
    ho sentito pronunciare ad una donna.
    Ché non v’è coraggio di vivere a testa alta guardando quell’Amore che è Luce.
    Il cammino par complesso agli occhi di chi non Lo vede. Ma c’è musica intorno ad allietare e svegliare … ché "un giorno le partiture più complesse saranno affrontabili e l’assenza di pensiero concederà all’essere più respiro".
    … poesia pregna di realtà!

    "Anelo le pause nella musica, per l’attesa del suono di cui si riempiono, e per la pace di quell’attesa che si sa sempre soddisfatta".
    Come quando si guarda qualcuno e si aspetta che il silenzio arrivi perché gli occhi possano parlare.
    Come quando ci si concede il tempo del calore stretti in un abbraccio a dire: - Sono felice di essere in questo metro quadro che si fa sempre più piccolo e non mi sta stretto!-, protetti da un - Chissà quando ci si rivedrà!- o addirittura - Chissà se ci si rivedrà!-
    Che l’altro fa paura, ma "nella pace di quell’attesa" c’è spazio per un pizzico d’intimità del cuore.

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